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L’ Alieno in Psicoanalisi di Camilla Latronico










“Lei non mi chiamava mai figlio, d’altronde non l’avrei sopportato, ma Dan, non so perché, io non mi chiamo Dan. Forse Dan era il nome di mio padre, sì, lei mi prendeva forse per mio padre. Io la prendevo per mia madre e lei mi prendeva per mio padre. Io la chiamavo Mag quando volevo darle un nome"


(Beckett, 1951)





Il passo di Beckett catapulta ciascuno di noi in una confusione relazionale in cui è difficile capire chi è il figlio, la madre o il padre.

Una situazione a dir poco “alienante” per coloro che sono sicuri del ruolo svolto da ciascuno dei genitori.

Ma cosa significa veramente alienante? Come questo termine si inserisce nella tradizione psicologica e filosofica del tempo?

La parola “alieno” (dal latino “alienus”) fa riferimento a ciò che appartiene all’altro ma assume diversi significati in funzione del contesto.

Può, infatti, riferirsi a qualcosa che appartiene ad un’altra persona ma anche allo straniero, a colui che è avverso.

La millenaria tradizione filosofica ci riconduce alla Fenomenologia dello Spirito hegeliana nella quale il filosofo propone la prima vera teoria dell’alienazione che coincide con il momento della scissione, del divenire-altro dello spirito; processo transitorio in quanto lo spirito “resta in se stesso”. Le accezioni di questa terminologia si riscontrano, poi più tardi, nella tradizione storico-filosofica in contesti che vanno dal religioso (vedi Feuerbach, 1841) al politico dell’epoca Marxista come critica alla struttura dello Stato hegeliano. Allora il termine “alienazione” si riferisce alla specifica condizione dei lavoratori che si alienano da se stessi, dal lavoro e dall’oggetto che producono.

Ma chi è l’altro? Cosa rappresenta per ognuno di noi?

Nel nostro contesto culturale dove il contatto visivo è il canale di comunicazione privilegiato e di interazione relazionale primario, l’altro è colui che si rispecchia nei nostri occhi ma è anche colui che offre lo specchio migliore per poter riflettere l’immagine e l’esperienza di sé.

Lo specchio e l’immagine di sè

Per coloro che non hanno ricevuto un’immagine riflessa dalla Madre coerente e integra ,l’altro sarà sfortunatamente uno specchio infranto dalle centinaia di sfaccettature,talvolta opaco, altre volte assente: quest’esperienza di non riconoscimento nell’altro s’accompagnerà con sentimenti di vuoto incolmabile o di rabbia incontenibile;

Quando l’alieno viene ad identificarsi con lo straniero, con il “nemico”, avverte una minaccia del senso di integrità del se, manipolerà la relazione cercando di generare nell’altro quell’immagine di sé di cui il soggetto cerca di disfarsi, per proteggersi dal ritorno di elementi insopportabili, indigeribili e taglienti.



La carenza di mentalizzazione.


La mancanza di “mentalizzazione”, così come viene definita la capacità di tenere a mente la mente, è la soluzione difensiva per evitare il ritorno minaccioso e doloroso di parti cattive di sé da un lato: il suo alto costo è rappresentato dal rischio di rimanere ai “bordi dell’esistenza”, ai bordi di un precipizio senza fine, ai bordi di un’esperienza che non ha confini, “vuota”.

L’interiorizzazione da parte del bambino dell’immagine che il genitore ha di lui in quanto persona dotata di intenzioni e desideri riveste, un ruolo fondamentale per l’organizzazione del Sé.

La madre ha, in questo caso, il compito di costruire una base protettiva e accogliente, ma nel momento in cui questa capacità viene a mancare il bambino tenderà a vivere il genitore come spaventato o spaventante, fonte di paura piuttosto che di protezione o consolazione. La disregolazione emozionale che ne consegue, costringe il bambino ad utilizzare risposte limitate o rigide che possono inficiare le successive relazioni interpersonali.

Lo sviluppo di un’immagine di sé organica viene a mancare; l’esperienza interna, infatti, non trovando un riflesso, un riscontro all’esterno, resta indefinita e confusa e accompagnata da affetti non contenuti.

L’assenza di un oggetto di rispecchiamento dell’esperienza del bambino è accompagnata da un vuoto nel sé, la realtà interna non riceve una definizione, rimane senza nome e può diventare spaventosa.

Nel momento in cui il bambino non trova un riflesso nel proprio stato presente, interiorizzerà, come suggerisce Winnicott, lo stato della madre come parte della struttura del Sé piuttosto che una versione utilizzabile dell’esperienza stessa del bambino.

Si viene a determinare quella che è stata definita “un’esperienza aliena all’interno del sé” (Fonagy, 1995,2000), fondata sulle rappresentazioni dell’altro intere al sé.

Nel caso in cui il bambino si trovasse di fronte ad un genitore spaventato o abusante, assumerebbe, come parte di sé, i sentimenti di rabbia, odio e paura nutriti dai genitori, oltre che la conseguente immagine spaventosa ed ingestibile che egli possiede di lui.

In altre parole assumerebbe su di sé un Sé alieno, quello del genitore, appunto.
La presenza aliena, una volta interiorizzata, interferisce con la relazione tra pensiero ed identità: vengono sperimentate idee e sentimenti che non sembrano appartenere al sè

Il sé alieno distrugge il senso di coerenza individuale.

In una situazione del genere, l’unica soluzione che potrebbe garantire al bambino la formazione di una rappresentazione di sé sopportabile e coerente, è quella di espellere questa immagine del sé alieno.

È stato ipotizzato che questo sé alieno probabilmente esiste in forma germinale in tutte le nostre auto rappresentazioni.

Esso assume una sua autonomia quando la presenza di traumi lo chiamano in causa come manovra difensiva che permette di identificarsi con lo stato della mente dell’abusante nel tentativo di ristabilire il controllo.

In altre parole, lo smascheramento del sé alieno, in mancanza della funzione riflessiva, è una difesa che il soggetto mette in atto per controllare l’abusante e gli stati mentali incontrollabili.

Bisogna ricordare, tuttavia, che l’altro alieno non è totalmente una creazione del trauma.

Il meccanismo che segue frequentemente è quello dell’”identificazione proiettiva adesiva” (Spillius, 1992) che può essere molto pervasiva, in primo luogo perché non si verifica la normale integrazione degli aspetti alieni del sé attraverso la mentalizzazione, ed in secondo luogo, una volta che si sono create queste esperienze, esse assumono un carattere ancora più compulsivo, poiché sono sperimentate nella modalità dell’equivalenza psichica,in cui gli stati mentali vengono vissuti come assolutamente reali: il mondo è come la mente lo rappresenta; il mondo interno è equiparato al mondo esterno.

Nella relazione terapeutica, ad esempio, il paziente riesce a vivere i propri pensieri e sentimenti come duraturi e stabili, solo nel momento in cui avverte che questi hanno un impatto forte sul terapeuta.

Affinché la rappresentazione di sé aliena possa essere sperimentata come esterna, è necessario che il bambino o il paziente, mantenga un elevato grado di controllo all’esterno.

Nel caso in cui la relazione con la figura di attaccamento non consente al bambino di effettuare un’efficace esteriorizzazione del sé alieno, le persone che si trovano in questa situazione sentono il pericolo di sparire, di subire una fusione patologica totalizzante, di perdere ogni confine relazionale e di smarrire ogni senso di coerenza interno.

Nella vita adulta, infatti, la rappresentazione di sé si manifesterà come un enorme bisogno di controllare gli altri con atteggiamenti manipolativi anche nella relazione terapeutica.


Il sé alieno e la violenza maschile contro le donne .


Nel caso degli uomini è più frequente che nelle relazioni affettive con la donna questi mettano in atto comportamenti violenti in modo tale che la donna funga da veicolo per gli stati intollerabili del Sé.

 La manipolazione della relazione è tale per cui il soggetto cerca di generare nell’altro quell’immagine di sé di cui non vede l’ora di liberarsi.

Il ricorso alla violenza, nel momento in cui l’esistenza autonoma dell’altro minaccia questo processo di esteriorizzazione, è immediato .

La violenza è, in questo caso specifico, un modo per far fronte alla paura della perdita della coerenza di Sé a causa del ritorno di quella parte aliena che in precedenza era stata espulsa e proiettata nell’altro.
L’atto violento ha, quindi, una duplice funzione: da una parte ricercare e sperimentare il Sé alieno all’interno dell’altro, e dall’altra distruggerlo nella speranza inconscia che scompaia per sempre.

La mancanza di stabilità della struttura del sé porta a legami sfilacciati, fragili eppure caricati di un’emotività che rompe ogni tipo di confine; spesso i legami che vengono a crearsi con persone con una struttura aliena del sé, sono legami esclusivi o totalmente invadenti per cui il rischio è quello di apparire estremamente (Marx, 1983)freddi e distaccati o, al contrario, totalmente coinvolti in questo tornado emotivo.


Bibliografia

Beckett, S. (1951). Molloy.

Feuerbach, L. (1960). L'essenza del cristianesimo (tr. it). Milano.

Fonagy, P. (2002). Psicoanalisi e teoria dell'attaccamento. Milano: Raffaello cortina
                                                                                                              Editore.

Marx, K. (1983). Manoscritti economico-filosofici. Torino: Einaudi.

Spillius, E. (1992). Discussion of "aggression and the psychological self".
                           Psychanalytic Ideas and Developmental Observation London.

Winnicot, D. (1962). Sviluppo affettivo e ambiente.





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