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Addiction, Dipendenze patologiche e Psichiatria : etimologia e semantica di un termine di confine di Guglielmo Campione


                                                                        



Nel preparare questo saggio sulle dipendenze patologiche, ho ritenuto utile proporre preliminarmente alcune riflessioni a partire dalla storia e dallo sviluppo dell’etimo di alcune definizioni diagnostiche che in origine, come si vedrà, univano, forse intuitivamente o in modo preconscio, conoscenze scientifiche che in seguito hanno invece “vissuto separate” nei loro ambiti accademici  per anni, per via della loro scarsa conoscenza, fino a “convivere” e divenirci  più familiari oggi che le conosciamo di più. Le parole che usiamo per descrivere la realtà, infatti, influenzano la nostra comprensione della realtà, condizionano la nostra capacità di leggerla  e comprenderla, ci offrono un punto di vista, ma ne negano altri.
Nell’ambito scientifico delle dipendenze patologiche, come sottolinea Di Petta (2004), si sente il bisogno «di guardare, per la prima volta, da una prospettiva unitaria e nuova ad ambiti patologici che fin’ora considerati per sé hanno condotto in molti casi lontano dal cuore del problema e in altri casi ad una vera e propria secca.(…) Si tratta della concreta possibilità di re-istituire delle connessioni di senso tra ambiti che sono ricchi di omologie e sinergie ma che per vari motivi sono finiti storicamente separati. Questo non per ridurre il complesso al semplice ma per valorizzare e combinare dopo anni di operatività distante, saperi e prassi».
Lo studio scientifico delle dipendenze patologiche ha negli ultimi dieci anni fatto passi da giganti. L’uscita dalle secche dell’impostazione sociologica degli anni ’60, ’70 e ’80 ha permesso la riappropriazione e l’utilizzazione della prassi diagnostica clinica che, a sua volta, ha condotto ad una notevole crescita delle conoscenze sia dal punto di vista biomedico, sia da quello psicologico. 
L’affermazione di ieri, tanto cara anche a certa psichiatria italiana, che si è o malati psichiatrici o tossicomani, appare ormai obsoleta e, soprattutto, non in grado di fornire indicazioni euristiche ed operative, anche perché la scienza delle dipendenze patologiche si occupa ormai da tempo di fenomeni come il gambling, la dipendenza da internet, la dipendenza da sesso, che esulano dallo stretto ambito delle tossicodipendenze e di cui non si occupa comunemente la psichiatria istituzionale. La scienza delle dipendenze patologiche può a ragione definirsi una scienza moderna proprio perché è, forse più della stessa psichiatria classica, sintonizzata maggiormente sui mutamenti della psicopatologia contemporanea. Si pensi, per esempio, all’alta prevalenza dei disturbi di personalità nella casistica dei servizi delle dipendenze, ma anche all’alta prevalenza di questi disturbi nella casistica della psicopatologia generale.
Oggi più che mai la scienza delle dipendenze patologiche si avvale, mi si conceda la licenza, di una “sua” psichiatria delle dipendenze, senz’altro più motivata, interessata e preparata della psichiatria classica a cogliere il senso, la natura e le evoluzioni del fenomeno .
Se si va oltre la sua pura nominalizzazione, il termine “dipendenza”, più che essere chiuso in sé ed autoreferenziale, appare indicare piuttosto un crocevia di processi psichici e somatici non intuibili automaticamente, ma descrivibili richiamandosi ad altri termini e ad altri percorsi della psicopatologia clinica: impulsività, ossessività, compulsione, egosintonìa, egodistonìa, manìa, narcisismo, dissociazione, alessitimia, psicopatia, personalità patologica.
Quello che emerge da questa disamina è che, per esempio, i confini categoriali imposti dalla quarta e ultima versione del DSM alla definizione dei quadri di dipendenza patologica, che del resto non a caso risale al 1983, risultano, per lo meno in parte, superati e non più in grado di cogliere la realtà proteiforme di questi disturbi.


Etimologia di “addiction” e di “dipendenza”

Come sottolinea Canali (2002) in uno dei pochi lavori in letteratura di riflessione epistemologica sul termine, «il concetto di dipendenza è centrale nella ricerca e nei diversi approcci esplicativi. Ed è forse per questo motivo che solitamente lo si considera chiaro e inequivocabile. Al contrario, come per la gran parte dei termini ovvi, uno sguardo solo meno superficiale rivela immediatamente la pluralità dei significati, la misura della vaghezza e delle contraddizioni di questo concetto, singolare commistione di elementi di carattere normativo, clinico e farmacologico». Le incongruenze e la confusione sono così radicali che si perpetuano sostanzialmente anche all'interno dei singoli modelli teorici di dipendenza, come quello medico, quello sociale, quello comportamentale.
Formulato per la prima volta nel 1793 da Benjamin Rush, padre della psichiatria statunitense, il modello medico della dipendenza come malattia è supportato dalle acquisizioni delle ricerche anatomiche, fisiologiche, neurofarmacologiche e genetiche che stanno progressivamente svelando le basi biologiche di questa condizione. Fondamentalmente, il modello medico spiega la compulsione alla ricerca e all'uso di sostanze psicoattive (considerati sintomi primari) come l'effetto di strutture e funzioni nervose rese patologiche da un uso prolungato della sostanza e su cui il soggetto non ha più controllo. La compulsione qui, diversamente che nel modello psichiatrico, è il risultato sul piano neuronale di un comportamento patologico.
I criteri per la dipendenza del DSM-IV ricalcano in larga parte quelli precedentemente fissati dell'ICD-10. Quest’ultimo, tuttavia, enfatizza come «caratteristica descrittiva centrale, (…) il craving, il desiderio (spesso forte, talora soverchiante) di assumere la sostanza psicoattiva», tanto che nell'ICD-10, “il senso di compulsione” al consumo rappresenta il primo criterio diagnostico della sindrome da dipendenza». Secondo Canali (2002), «entrambi i sistemi diagnostici non definiscono esplicitamente il concetto di addiction, un termine fondamentale nel dibattito sulla dipendenza e difficilmente traducibile in italiano. Questa lacuna nelle definizioni è forse all'origine dello scarso consenso su ciò che significhi realmente il termine “addiction” anche tra gli stessi psichiatri e neuroscienziati. Esso così viene impropriamente usato al posto di “dipendenza”, generando non poca confusione sia a livello teorico e della ricerca sia nella messa a punto e nella pratica degli interventi e dei trattamenti.
Secondo il modello medico il termine addiction indica uno stato comportamentale caratterizzato da un coinvolgimento assoluto nell'impiego di una sostanza (uso compulsivo), nell’assicurarsi l'approvvigionamento della sostanza, e da un’alta tendenza alla ricaduta dopo la sua interruzione, mentre per “dipendenza” si deve intendere lo stato fisiologico di neuroadattamento prodotto dalla ripetuta somministrazione della sostanza, che necessita di continue somministrazioni per prevenire l'insorgenza di una sindrome d’astinenza. Questa è la distinzione che tutti i più autorevoli testi di psicofarmacologia rimarcano con enfasi. Sembra chiaro e molto semplice
».
Questa sottolineatura dell’aspetto comportamentale condurrebbe in modo contradditorio (cinque criteri su sette sono relativi a condizioni comportamentali) a quella che Canali (2002) chiama «deriva del concetto di addiction, provocata da alcune deprecabili frange della psichiatria contemporanea e dalle pressioni di mercato visto che medicalizzare i comportamenti significa infatti anche (o soprattutto?) vendere cure». Il concetto di addiction avrebbe in tal modo subito un’inflazione stupefacente tanto da accomunare sotto la stessa egida la sex addiction, il gioco d'azzardo, lo shopping compulsivo, la dipendenza da lavoro, da Internet, dalla televisione, dal fitness, dal cibo. Un esempio di questa tendenza, come si vedrà successivamente, è rappresentato dal modello dimensionale proposto da Goodmann (1993) in stile categoriale che riunisce per la prima volta tutte le dipendenze.
Sebbene concordi con Canali (2002) nello stigmatizzare l’eccesso nell’uso del termine “dipendenza”, penso che la preponderanza dei criteri comportamentali nell’inquadramento nosologico medico della dipendenza rappresenti invece un lucido tributo all’evidenza clinica (anche se di modello diverso) e la dimostrazione che il fenomeno della dipendenza non possa essere affrontato e compreso con un solo modello. Può infatti un modello, per mantenersi coerente, scotomizzare aspetti evidenti e descrivibili consensualmente come quelli comportamentali? Penso anche che, di fronte al vorticare di tante nuove etichette diagnostiche, sia lecito chiedersi se il loro conio corrisponda ad un esclusivo bisogno nosografico e sociale di classificare e controllare il comportamento o se esso rappresenti, che è quello che ci interessa di più, un autentico progresso nella comprensione del fenomeno e quindi sia un naturale epifenomeno di tale sviluppo di conoscenza.
Sfogliando i vocabolari italiano e inglese incontriamo queste definizioni:

Addiction:
dipendenza; assuefazione: addiction to heroin, dipendenza dall’eroina; drug addiction, tossicodipendenza;
passione; mania; fanatismo.

Addict:
persona dedita a un vizio; dipendente; -mane: drug addict, tossicodipendente; tossicomane; heroin addict, eroinomane; (fam.) telly addict, videodipendente;
appassionato; patito.

Dependance:
dipendenza; (il) dipendere: our dependence on the phone, la nostra dipendenza dal telefono; dependence on other, il dipendere dagli altri; alcohol dependence, dipendenza dall’alcol.
fiducia;
(l’) essere a carico (di qc).

Dipendenza:
latino parlato: dependere, letteralmente “pendere in giù”, composto di de- e pendere;
condizione di dipendente: in dipendenza di ciò, in conseguenza di ciò.  Avere qualcuno alle proprie dipendenze, essere datore di lavoro. Essere alle dipendenze di qc., lavorare in posizione subordinata;
assenza di autonomia nei confronti di persona o gruppo;
invincibile bisogno psicofisico di assumere una determinata sostanza, spec. droga; cfr. assuefazione.

Dipendere:
v. intr. “trarre origine, essere causato” (1304-08, Dante), “essere sottoposto all’autorità, al potere altrui” (av. 1540, F. Guicciardini), “in sintassi, essere retto, detto di caso o di complemento” (av. 1589, L. Salviati).

Dipendere:
v. intr.
trarre origine, costituire la conseguenza di determinate premesse, essere legato al verificarsi di una condizione;
essere sottoposto all’autorità di altri, essere subordinato alle decisioni di qc., al contributo economico di qc.;
in sintassi, essere retto, detto di caso, complemento o proposizione subordinata.

Indipendente:
Esente da rapporti che implichino il riconoscimento o l’accettazione di   motivi più o meno ufficiali di subordinazione.
L’indipendenza non significa fare a meno degli altri o vivere da soli, significa solo non essere subordinati dove non serve.

Controdipendente:
Atteggiamento reattivo compensatorio di natura narcisistica che consiste nell’assumere atteggiamenti ribelli, antiautoritari, che mirano all’indipendenza in forma per così dire “assoluta” e che nascondono un bisogno di dipendenza negato dal timore di essere troppo in balìa del soggetto da cui si dipende.

Tossicodipendenza:
Stato in cui cade un tossicomane abituale, che non può fare a meno di sostanze stupefacenti.

«Il termine “tossicodipendenza”, come sottolinea Bignamini (2003), è usato al di là, anzi soprattutto al di là dell’ambito tecnico ed ha assunto nel linguaggio comune un significato ristretto che implica anche un atteggiamento di giudizio valoriale e specifiche reazioni emotive negative(…). La sua forza evocativa ne condiziona troppo il significato rendendo impossibile diversi modi di pensarlo.(…). D’altro canto gli oggetti da cui si dipende non sono tossici in sé stessi (si veda il gioco d’azzardo, la sex addiction) e la dipendenza può essere definita dalle caratteristiche della relazione di un soggetto con un oggetto (…); non è la sostanza quindi a definire la patologia da dipendenza ma la relazione tra il soggetto e l’oggetto, la particolare modalità di quella relazione.
La dipendenza è una condizione patologica correlata ad un’alterazione del sistema della gratificazione e ad una coartazione delle modalità e dei mezzi con cui il soggetto si procura piacere caratterizzata da craving e da una relazione con un oggetto-sostanza, situazione,comportamento, connotata da reiterazione e marcata difficoltà alla rinuncia.
Secondo Zucca Alessandrelli (2002) il termine anglosassone “addiction” ci fa pensare allo stato psichico di schiavitù, prima che a quello fisico: «La vittima, non solo subisce un impulso superiore alle sue forze di controllo, ma è costretta a collaborare con la prepotenza di quest’impulso. Il termine comprende sia la dipendenza coatta da varie sostanze (l’alcol, le droghe, i farmaci), sia i cosiddetti “disturbi alimentari”, quali la bulimia e la sua rigida formazione reattiva, l’anoressia, sia altri aspetti di dipendenza, come la cleptomania, i tentativi di suicidio ripetuti, la compulsione agli acquisti, al gioco, al sesso (… )». Nella lingua inglese, ci fa notare Zucca Alessandrelli (2002), il termine “addiction” significa “inclinazione”, “dedizione”, in genere, in senso spregiativo, come se volesse indicare un’inclinazione eccessiva a qualcosa. Esso si è diffuso in tutti i paesi occidentali.
Il termine “addiction” indica quindi, come da etimologia, il significato di schiavitù, di depersonalizzazione e di sottomissione. Per quelle lingue in cui la traduzione letterale non come ad esempio l’italiano   in cui la parola “addizione” non può affermarsi, si usa il termine inglese. I francesi se la sono cavata,appunto, pronunciando alla francese il termine inglese.
È curioso il fatto che proprio noi italiani, eredi del mondo latino, non possiamo usare un vocabolo derivato da questa cultura. Il termine latino “addictio” è il sostantivo del verbo “addicere” che aveva diversi significati. Tra i più importanti, vi era quello di dedicarsi o abbandonarsi a qualcosa, come ad esempio alla vita pubblica o a una missione, o ancora lasciarsi andare a uno stile di vita, a un comportamento, come, ad esempio, alla vita monacale. Un altro significato era quello che noi, in italiano, traduciamo con “attribuire”, nel senso di passare qualcosa sotto il nome di qualcuno. È, infine, soprattutto importante quel significato che nel mondo giuridico latino era “aggiudicare qualcuno a qualcun altro”, nello specifico la persona del debitore al creditore, per cui “addictus” voleva espressamente dire “schiavo per debito”. Forse per chi è vittima dell’addiction, più che “schiavo per debito”, occorrerebbe dire “schiavo per credito”, vista la situazione delle relazioni infantili in cui essa è cresciuta (Zucca Alessandrelli, 2002).
Per “addictio” bisogna intendere l’assegnazione disposta dal magistrato del debitore insolvente al creditore insoddisfatto, ad esito del vittorioso esperimento di un’apposita azione giudiziale da parte dello stesso ultimo soggetto. La sussistenza nell’antico ordinamento giuridico romano di simile istituto dimostra come la natura del vincolo obbligatorio sia personale e non patrimoniale (come fortunatamente esso si connota in tutti i sistemi legislativi contemporanei). In particolare, il creditore insoddisfatto vincitore della lite ha facoltà, trascorsi trenta giorni dalla pronuncia della sentenza senza che l’obbligazione sia stata adempiuta, di chiedere al magistrato che abbia appunto accolto le proprie ragioni l’assegnazione del debitore insolvente. Una volta perfezionata l’addictio, il creditore assegnatario può tradurre il debitore assegnato nel proprio carcere personale e tenervelo incatenato per un periodo di sessanta giorni; nel corso di tale periodo, egli può altresì condurlo per tre giorni consecutivi nel mercato onde consentire a chiunque di pagare il debito (e acquisire così la proprietà del debitore) e, in assenza di rivendicazioni, scegliere se tenerlo come schiavo o venderlo in territorio straniero o addirittura ucciderlo.




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